Colombre – Pulviscolo

Pulviscolo“, disco d’esordio di Colombre – alias di Giovanni Imparato, già frontman dei Chewingum – è proprio come quel veliero, pronto, sicuro, eppure snello nelle sue dimensioni contenute – il disco dura appena venticinque minuti – che appare nel racconto di Dino Buzzati intitolato “Il colombre”.

Anticipato non molti giorni fa dal tagliente “Blatte”, brano in collaborazione con Iosonouncane, il disco possiede lo stesso dolce sentore che si avvertì quando, nel marzo del 2015, uscì DIE di Jacopo Incani; nonostante i due progetti siano agli antipodi, ma di fronte al talento non si ha scelta. Ed ecco quindi “Blatte“, che insospettabile potrebbe ricordare le cose più riuscite del duo Mina/Celentano, legando Imparato, in un sottile e piacevole fil rouge, alla tradizione.

Il secondo singolo, preceduto dal brano di lancio “Pulviscolo”, si sostiene su un inedito contrasto tra l’apparente dolcezza e leggerezza delle armonie – che sconfinano in melodie denominate da secoli di critica come “musica leggera” – e la violenza del testo. Ma Colombre non è solo ciò che è stato, Colombre è un animale irreale, rappresenta forse le chimere della nostra contemporaneità e quindi inevitabilmente esprime anche il nostro futuro.

Stupisce accorgersi in un attimo quanto questo disco sia in realtà tangibile. Si viene, quasi senza notarlo, letteralmente sbalzati in un caos di suggestioni, di narrazioni in cui la durezza della vita confonde, perché cos’è la vita se non un viaggio a velocità variabile che può essere interrotto da un momento all’altro e che, come “Pulviscolo”, dura tutto sommato poco. Noi non abbiamo scelto di essere qui e neppure saremo noi a scegliere quando ce ne andremo. Il pulviscolo è ciò che rimane di noi e rimarrà delle nostre cose:

“Ho buttato via un sacco di tempo / perché credevo fossimo simili / se ci penso bene è uno spreco immenso / se poi doveva andare così”.

Immergersi nel vasto mare di “Pulviscolo” è un atto che dura un secondo, proprio come i gesti più concreti. Le sonorità sono familiari ma mai banali, tra atmosfere Lo-fi alla Mac DeMarco, tocchi Pop che ricordano i Belle and Sebastian e tratti Noise – penso agli stimati e meno conosciuti Charles Howl. Ma al di là dei tanti rimandi più o meno riscontrabili in questo lavoro, di cui senza alcun dubbio sentiremo parlare e tanto, il vero merito di Imparato è quello di aver saputo gestire l’esordio solista come naturale proseguimento dei trascorsi con i Chewingum, coronando sapientemente in questo modo la sua carriera artistica, facendo coincidere maturità piena con presa di coraggio, lanciandosi quindi in un progetto che di certo l’aspetto di una chimera non ha.

Il rumore di fondo di “Pulviscolo” è la vita stessa. E la letteratura non può non entrare con violenza in questo lavoro, che ha non solo negli arrangiamenti ma anche nel testo la sua massima espressione. Il pensiero va immediatamente a chi della quotidianità ha scritto come nessun altro aveva fatto prima: Raymond Carver. Come Carver, Colombre nei suoi testi non racconta fatti ma i pensieri che li anticipano. Non racconta il gesto ma l’attimo che lo precede. Come per i personaggi carveriani,l’umanità di cui racconta Imparato viene rappresentata da individui in attesa, figure che hanno delle intuizioni ma per timore, paura o inadeguatezza decidono di non agire. Non solo Carver però, nell’asciutta efficacia delle immagini, ma anche Kafka, riscontrabile in una solitudine un po’ persa ma cosciente:

“Forse non ti avrò mai capito / ma ho pensato / che le blatte si nascondono in casa tra i panni sporchi / e aspettano il buio”.

Spiazza un po’ rendersi conto che nella stessa raccolta di racconti di Buzzati, dove riposa placido “Il colombre“, ce ne sia uno intitolato “Lo scarafaggio” in cui si racconta di un uomo che calpesta una blatta, se ne ritorna a dormire, ma la bestiolina ancora viva nell’altra stanza, con la sua agonia, gli provoca telepatici incubi. E per amor di precisione potremmo ricordare anche il Kafka italiano Tommaso Landolfi con il suo “Il mare di blatte” – in una recente intervista, per ammissione stessa di Imparato, tra le ispirazioni di “Pulviscolo”.

Personalissimo sogno di chi scrive poi sarebbe vedere Colombre duettare con Maria Antonietta – compagni nella vita – in “Fuoritempo”, decisa proposta dedicata alla grande arte del procrastinare – ormai alla stregua di chiunque oggi – tra scuse e isolamenti più o meno voluti: brano che strizza l’occhio proprio alla cantautrice pesarese. L’intima analisi che scompone ascendenti, spezzando/evitando la minima piattezza, si fa più viva nelle tracce “Tso” e “Dimmi tu“: quest’ultima contraddistinta da un groove contagioso, stranamente simile al Telesforo di “Groovin’ in the shade of night”.

Imparato ci riesce a evitare la ripetitività di un’identità forte come la sua, senza finire nel baratro rischioso delle attuali tendenze del corrente panorama musicale italiano. In lui si possono sentire reminiscenze anni ’80 alla Pulp, i Talking Heads e un lieve sentore etnico che vira al Brasile di Veloso, come in “Sveglia” in cui la totale autonomia di Imparato traspare anche nel testo che diventa un inno alla libertà di essere:

“Loro se ne fregano sempre / non gli importa di niente / tantomeno di te / dài su alzati e vestiti a festa / anche con la tempesta o con la faccia nel muro”.

Creare qualcosa di originale e al contempo accogliente – in cui potersi sentire a proprio agio –, non è facile, ma rappresenta il bilancio finale di questo debutto che, nei suoi equilibri, stupisce positivamente.

Il racconto di Buzzati si conclude così: “Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro. A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamato colombe, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente lo ignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.” Il valore quando lo intravedi è come il colombre, ormai rarissimo, spaventa, il più delle volte viene ignorato, ma lo riconosci all’istante. In un tempo in cui la tendenza è quella di replicare formule che hanno funzionato e che – ragionamento di buona parte del mercato discografico – gettate nella mischia potrebbero funzionare ancora, un progetto come Colombre, nel suo essere “Fuoritempo”, lascia ben sperare sulle sorti della scena indipendente nostrana.

Il colombre in realtà non esiste. Colombre e la bellezza autentica che porta con sé per fortuna sì.

Recensione apparsa su Rocklab.