Come reagire al presente (e ai malanni di stagione)

Lunedì mi sono laureato. Forse – anzi sicuramente – proprio a causa di questo, quello stesso giorno di metà novembre, a Bologna, ha nevicato. Lo ha fatto in modo arrogante: bloccando strade, treni, persone, cose. Dovete immaginare la linea ferroviaria Bologna-Ravenna trasformata in una tratta a piacere della Transiberiana. Le possibilità di incontrare Jurij Andrèevič Živàgo per il corridoio del regionale erano fottutamente alte. Fuori dai finestrini il nulla bianco. Qualcosa di molto simile al video di “Forse non è la felicità” dei Fast Animals and Slow Kids. Ora, già uno c’ha l’ansia perché lavora e non ha avuto molto tempo per preparare l’esposizione della tesi, in più, come se non bastasse, il treno che lo porta al compimento del suo percorso di studi sta fermo in mezzo al niente padano ammantato di neve per 52 minuti. Non so a quanti di voi sia successo di chiamare il proprio relatore per avvertire di un ritardo alla discussione. Ecco a me è capitato anche questo. In quei lunghissimi attimi di ansia, da un momento all’altro, come in Palombella Rossa, ho immaginato – e forse un po’ ho sperato – di sentire Nanni Moretti gridare tra i passeggeri: “FATELO SCENDERE! FATELO SCENDERE!”: riferito ovviamente non a Živàgo – seduto ormai accanto a me nello stesso vagone, anche lui con la barba ghiacciata dal freddo –, bensì al sottoscritto.

Che ci crediate o no successe la stessa cosa anche nel 2013 quando mi laureai a Urbino. Quella volta sul ridente paesino marchigiano scesero 50 centimetri di neve. Durante la discussione notai che i professori indossavano oltre al vestito da cerimonia, sopra a giacche eleganti, i Moon Boot ai piedi. Al ritorno io e la mia famiglia ci fermammo a dormire a Cattolica perché l’autostrada venne chiusa e le strade interne erano totalmente bloccate da auto in fila o cadute dentro qualche fosso.

La neve, si sa, come qualunque altra calamità naturale fa sempre un sacco di danni. Mio fratello, ad esempio, nel disperato tentativo di tenere mia madre in equilibrio sulla melma grigia e sciolta delle strade bolognesi, lunedì ha perso per sempre gli occhiali, che pare gli siano caduti chissà dove dalla tasca del giubbetto. A questo proposito, approfitto della sempre crescente popolarità di Stormi, per chiedere a il Resto del Carlino di Bologna, in caso dovesse intercettarli o ritrovarli, di prendere esempio dai colleghi de il Resto del Carlino di Pesaro e pubblicare un annuncio sul loro utile sito.

Nemmeno a dirlo, immaginate un po’, mercoledì ero a letto con 38 di febbre e la gola in fiamme. A niente sono valsi i tentativi di rianimarmi con propoli e i vari ritrovati medici odierni. Come qualunque uomo sulla faccia della terra che si rispetti, il secondo giorno stavo già provvedendo a trascrivere, in presenza del mio legale – per l’occasione rappresentato dal mio gatto – le mie ultime volontà.

Lo sappiamo tutti: la sfiga chiama altra sfiga. Esisteva, che io sapessi, un solo farmaco in grado di riabilitare le mie vie respiratorie durante una malattia. Questo farmaco si chiamava Localbiotal. Una specie di antibiotico locale. Ho scoperto solo in questi giorni che pare lo abbiano ritirato dal mercato per i gravi effetti che può avere sulla gente. A quel punto, abbandonando qualunque speranza e ogni possibilità di guarigione – attraverso i soliti farmaci generici che tutti usano in queste situazioni e ai quali sfortunatamente il sottoscritto risulta essere completamente immune – ho deciso di lasciar fare alla natura e alla selezione naturale e di utilizzare un approccio e un punto di vista darwiniano. Se fossi sopravvissuto anche a questa sarebbe stato segno che ero abbastanza forte da meritare di continuare a vivere.

Tra una misurazione della febbre e l’altra – e come ogni uomo si sta parlando di una media di una misurazione ogni venti/trenta minuti circa – è andata che ho combattuto eroicamente alla vista di numeri preoccupanti e a tratti drammatici come 37.4 o peggio mi sento 37.6, con scariche di tosse inumane e degne del miglior romanzo tisico dostoevskiano e con la fortissima tentazione di lasciarmi andare e abbandonare ogni speranza di vita e implorare i miei cari a lasciar perdere con l’accanimento terapeutico, etc. etc. È finita che, dopo quattro giorni di buio totale e febbre, ne sono uscito vivo.

Nel frattempo questa settimana, mentre me ne stavo rintanato nel mio oscuro lazzaretto casalingo e fuori vedevo un sole assurdo, quasi estivo, alternarsi alla notte – a quanto pare dopo quell’unico episodio di neve si sono susseguite giornate radiose e calde –, sono successe un sacco di cose.

Anche cose importanti. Come l’uscita di “Io non abito al mare” di Francesca Michielin, scritta da Calcutta, paternità che si sente moltissimo, un po’ come nei pezzi che Contessa aveva scritto per Coez. Basta prestare un attimo di attenzione al testo per rendersene conto. Ed è una nota di merito per Edoardo questa, che ha saputo creare una propria identità, originale e ben riconoscibile. La riconoscibilità: componente fondamentale e ai più sconosciuta per poter definire qualcuno un artista.

Oppure Carl Brave x Franco126 che sono riusciti a sedurre pure Morandi.


Poi ci sono fatti che chiamano il silenzio. Come la morte di Lil Peep, un giovanissimo che prometteva tanto e che pare sia stato stroncato da una probabile overdose.
E mi vengono in mente le parole di Pier Vittorio Tondelli, datate 1988, in Un weekend postmoderno, sulla morte dell’amico Andrea Pazienza: “È questo che la morte di Andrea mi mette davanti, spietatamente: il lato negativo di una cultura e di una generazione che non ha mai, realmente, creduto a niente, se non nella propria dannazione. Nonostante il successo, nonostante l’equilibrio raggiunto nell’oasi di Montepulciano, nonostante il matrimonio, Andrea è morto – probabilmente per overdose – come uno dei tantissimi suoi coetanei, come uno di quei ragazzi che meglio di ogni altro aveva interpretato e saputo raccontare. In tutto questo c’è, a mio parere, una grandezza straordinaria, anche se costruita sulle miserie del quotidiano, e una coerenza che solo gli ipocriti possono biasimare. Molti altri, vittime e interpreti di quegli anni sono scomparsi. C’era qualcosa che non andava allora, ed era il mito dell’autodistruzione. Qualcuno ne è saltato fuori, qualcun altro no e ha pagato carissimo”.
E nonostante i trent’anni trascorsi quelle parole tornano ad essere improvvisamente come scritte pochi giorni fa.

Sono usciti poi un fracasso di album, canzoni nuove, più o meno degne di menzione. Tra gli album annunciati quello di Andrea Poggio, che mantiene le promesse dopo i brani rilasciati fino adesso, compreso “Controluce”, uscito pochissimi giorni fa. E del resto come fare a non fidarsi di un’etichetta come La Tempesta.

Ad esempio tra le cose che mi sono piaciute la nuova di Ketama126Giovane e selvaggio”.

Oppure Katres con “Bla bla bla”, uscita da pochissimo, che riesce a distinguersi all’interno di un genere che di sicuro non aiuta l’audacia.

E ancora Rugo che, uscito due settimane fa con questa piccola gemma“Occhi a mandorla”, se lo stanno filando davvero in pochi mentre meriterebbe senza dubbio di più.

Oppure gli A Day After Hurricane “I’ve Lost Control”, su cui però fatico a trovare elementi di distinzione: mi ricordano una strana unione dei Foster The People con i Two Door Cinema Club nella fase meno brit possibile.

Anche la nuova uscita“Giovani Fluo” di Asia Ghergo, per ora disponibile solo su Spotify, non è male e lascia intravedere un lavoro che lascia ben sperare su tutto ciò che potrebbe esserci in futuro di suo.

Tra i classiconi rivisitati la nuova, bella versione di “Manzarek” dei Canova, disponibile per il momento solo su Spotify.

O ancora la versione acustica di “Congratulations”, cover di Post Malone, di Wrongonyou uscita in occasione del suo compleanno, che continua ad essere uno dei migliori italiani in circolazione, non a caso apprezzato tanto anche all’estero. Non dimentichiamoci che lui, Iosonouncane, Persian Pellican e pochissimi altri hanno calcato i palchi del Primavera Sound di quest’anno.

O un’altra cover di altissimo livello come quella di Gigante, che si conferma una new entry decisamente di valore con una versione di “Ken il guerriero” di Claudio Maioli.

Altra grandissima attesa che ha cambiato le sorti della mia settimana decisamente turbolenta “Zenith” degli Intercity, made by fratelli Campetti dei già Edwood e Campetty:

Poi c’è un caso che ha fatto parlare tanto di sé ancor prima di uscire.
Le abbiamo viste tutti in giro per i Social e per il web e tutti a chiedersi che cazzo stesse succedendo:

Un hype pazzesco per una canzone che lascia intravedere cose interessanti. Si chiama Cimini La legge di Murphy” e la situazione è pericolosamente in bilico tra tutto quello che già è stato sentito e qualcosa invece di nuovo e valido.
Prima di pronunciarmi ho deciso di attendere i prossimi lavori. Intanto questa si lascia ascoltare. La speranza è che tutto quell’hype, non appena si intravederà un album, possa essere giustificato.

Oppure, ultimo ma non ultimo, la felice new entry Sabazio che con “Negroni” sembra sapere abbondantemente il fatto suo.

O i Generic Animal con “Broncio”, che vale la pena sia per testo che per arrangiamenti.

O La Notte con Per nuovi pescatori, dell’ottima etichetta Woodworm.

O i Dunk con l’appena uscita “È altro”, che hanno Luca Ferrari dei Verdena alla batteria (hai detto niente).

O Nicola Lombardo con “Mattino”, che nella sua semplicità mi trasmette tanto.

O ancora Cinemaboy con “Everything”, uscito per Maciste Dischi qualche giorno fa:

Nel girone dei bocciati della settimana invece ci finiscono il nuovo disco di Fabrizio Cammarata che sa davvero molto di già sentito. Non riesco a trovarci alcuno scatto di originalità. Il risultato è qualcosa di sommariamente piatto.

All’insegna della piattezza è anche “Stile libero” di Lucio Leoni, nuovo bravo estratto da “Il lupo cattivo”. Molto ben fatto il video, ma al secondo ritornello già si arriva stanchissimi e non si può far a meno che smettere di ascoltare. Io a una certa, per finire di vedere il video, ho tolto l’audio.

Così come Ma Michelle appena uscita con “PUSSY POWA”, brano povero di contenuti e che sembra fare il verso nei toni all’irraggiungibile M¥SS KETA.

E potrei fermarmi qui, ma poi ci sono gli Apnea con “Ballare male”: sono ancora immaturi e forse sarebbe il caso di prepararsi un pochino di più prima di esordire.

Oppure Emanuele Presta che con “Notte 24 H” si inserisce nel filone dei cantautori finto impegnati, che non si capisce se guardino più a Bennato o a De Andrè, ma che lasciano, come risultato finale, una fatica immane addosso.

O la nuova “Auguri de Il branco, decisamente sotto le aspettative.

Come al solito per rifarci la bocca e sollevarci il morale da queste ultime vengono in nostro soccorso alcune nuove e valide uscite come il piccolo gioiellino concepito dai Tame Impala e uscito pochi giorni fa “Currents B-Sides & Remixes”, con tre brani inediti, oppure il nuovo video degli Alt-JPleader”, clip i loro che ogni volta sono come piccole opere d’arte.

Tondelli nel pezzo su Pazienza continuava citando Pavese: “Ogni vita è quella che doveva essere”.
Qualcosa di vero dietro a questa frase c’è, ma non ho mai sopportato il fatalismo.
Penso che ognuno abbia piena responsabilità di ciò che è, fino alla fine. I fatti spesso ci vengono incontro e non lo fanno in modo casuale. Spesso siamo noi a sceglierci le cose, a volte anche inconsapevolmente.
Ad esempio la mia tesi era su Kafka. E questo potrebbe voler dire molte cose.
La prossima volta la tesi la scrivo su qualcuno di allegro, positivo e soprattutto in salute.